Gli Inconsolabili | Kazuo Ishiguro Gli Inconsolabili | Kazuo Ishiguro

Gli Inconsolabili | Kazuo Ishiguro

Si potrebbe pensare ad Alice nel paese delle meraviglie secondo Kafka oppure a Il castello scritto da Carroll. In un caso e nell’altro il risultato sarebbe un successo, visionario e a tratti grottesco qual è Gli inconsolabili di Kazuo Ishiguro.

L’autore nasce in Giappone, ma cresce nel Regno Unito fino a diventare cittadino britannico. La sua cultura familiare di tipo orientale si fonde con la formazione europea, ed egli stesso si definisce come un miscuglio di cultura e tradizioni; di sé dice: “Ho quindi radici differenti. Penso differentemente, la mia prospettiva è sottilmente differente … Si finisce per essere una strana miscela omogenea”.

Non è uno scrittore prolifico. Poche le opere, ma di grande spessore. Ogni suo scritto ha vinto un premio: Un artista del mondo fluttuante ha conquistato il premio Withbread nel 1986, Quel che resta del giorno il premio Booker nel 1989, Non lasciarmi il premio Alex nel 2005, fino ad arrivare al Nobel nel 2017.

Difficile e riduttivo classificare i suo scritti: passa agevolmente dallo stile del romanziere moderno così come lo si legge in Non lasciarmi, razionale nella struttura e passionale nei contenuti, allo stile più frammentato dei flussi di coscienza, incapace di correre dietro ad un unico pensiero come accade in Gli Inconsolabili. In entrambi i casi il denominatore comune è la genialità della sua inventiva.
Non lasciarmi, come Quel che resta del giorno, è stato riprodotto con successo sulla pellicola, con un risultato fedele ai fatti raccontati ma che perde il cinismo sornione che invece governa il romanzo. Facile raccontare fatti riprovevoli ed ottenere di rimando il pubblico disappunto. Ma ciò che fa Ishiguro è trattare materie delicate e laceranti con i guanti del cinismo più impudente e indifferente, che quasi non lascia spazio neanche al rammarico.

Gli Inconsolabili di contro svela il lato meno crudo del genio dell’autore ma sicuramente quello più perverso. C’è perversione nel suo modo di raccontare, nel suo modo di armeggiare i fili dei protagonisti. Non è un romanzo di facile lettura. Faticoso entrare nel ritmo, prendere confidenza con gli improvvisi cambi di punti di vista. Tutto è scritto in prima persona e in gran parte del romanzo si segue il flusso di pensieri e sensazioni del sig. Ryder, continuamente interrotto da vuoti di memoria che vengono prontamente colmati da idee o ricordi altrui.

La storia si dipana su tre lunghi interminabili giorni in cui Ryder si sveglia ogni mattina senza chiari ricordi del giorno precedente e immediatamente interviene qualcuno con personali ed inverosimili resoconti che lui fa suoi senza eccezioni. I personaggi entrano in gioco all’improvviso, in maniera spesso inopportuna e addirittura ridicola, interrompendo di volta in volta un discorso, un pensiero, un’azione. Ryder è continuamente in balia degli avvenimenti, delle interruzioni di memoria e dei black out di coscienza e con matematica puntualità compare qualcuno a disorientarlo, a distoglierlo dal suo obiettivo.

Ma qual è il suo obiettivo? Lui medesimo ne perde continuamente i connotati. Come Alice è alla continua ricerca di qualcosa o qualcuno, o semplicemente di una strada piuttosto che di una risposta, e come la ragazzina perde se stesso, fino a non riuscire a pronunciare il suo nome quando richiesto. Percorre strade interminabili per raggiungere posti improbabili, per poi scoprire che una porticina sfuggita alla vista conduce al punto di partenza. Come il sig. K. de Il castello ha fissato una meta impossibile da raggiungere e l’unica cosa che sa fare e per cui è stato chiamato, alla fine, sembra proprio quella che non riuscirà a portare a termine.

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Perché Gli Inconsolabili? Ogni personaggio che interviene ha qualcosa di irrisolto per cui si strugge. Ryder, nel suo vagare senza senso, tocca l’Io di ognuno di essi e ne sonda l’intimo per scoprire che il loro disagio è dovuto all’assenza di comunicazione e all’ostinata certezza delle proprie convinzioni, a dispetto delle evidenti smentite in cui si imbattono. Persone che hanno bisogno di qualcosa non meglio identificata e che quando allungano la mano per accarezzarla, la ritraggono e scappano via, perché è più facile crogiolarsi nella commiserazione e nell’incomprensione, piuttosto che afferrare e stringere ciò che si desidera. La felicità richiede coraggio!

Il romanzo sembra districarsi in una dimensione onirica in cui si percorrono strade buie, sentieri persi tra i boschi, corridoi lunghi, stretti e tortuosi per trovarsi poi al punto di partenza. Un sogno in cui ci si ritrova mezzi nudi ad una serata di gala dove è d’obbligo l’abito nero, un incubo in cui si cerca di parlare, di pronunciare una sola parola e ci si ritrova senza voce. Una dimensione spasmodica in cui si cerca un chi, un cosa, un dove.

In altri momenti il romanzo sembra il racconto di una seduta di psico-analisi magari sotto ipnosi. Viene da domandarsi se il bambino che Ryder incontra non sia una proiezione di se stesso. Avrebbe senso quindi il suo atteggiamento distaccato verso quello che non si sa possa essere suo figlio, un atteggiamento freddo e infastidito ma pur sempre governato da una latente tenerezza. Anche le famiglie in cui si imbatte, i rapporti di coppia difficili in cui cerca di mettere ordine, sembrano proiezioni della sua stessa vita, delle sue stesse frustrazioni.

É un romanzo che richiede lo sforzo di arrivare fino in fondo per essere apprezzato. É tortuoso e tormentato. Sembra non portare a nulla e forse in fin dei conti non porta a nulla. É solo flusso di pensieri, di avvicendarsi di potrei, dovrei ma non posso, non riesco. É un continuo interrompersi e intersecarsi di situazioni, fatti esterni ed interni ai personaggi.

Se si volesse descrivere Gli Inconsolabili con una immagine, Le scale di Escher sarebbe quella più congeniale. Qualcosa che dia l’idea dell’inganno continuo dell’Io, che si perde nelle molteplici dimensioni di se stesso, restando sempre inconsapevolmente uno e solo.

Autore: Shalika Fiorentino

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