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“L’ultima estate di Berlino” di Buffa e Frusca

L'ultima estate di BerlinoL’ultima estate di Berlino” è la traduzione letteraria dello spettacolo teatrale “Le Olimpiadi del ’36” portato in scena sui palcoscenici di tutta Italia nel corso del 2015, dal grande storyteller televisivo Federico Buffa.
Scritto a quattro mani insieme a Paolo Frusca, il racconto vede protagonisti un soldato tedesco e un giornalista americano che, per motivi decisamente opposti, sono coinvolti nella grande kermesse dei Giochi Olimpici del 1936, ospitate nella capitale del Terzo Reich. In pieno dominio hitleriano, il partito nazionalsocialista da pochi anni al potere, peraltro ottenuto democraticamente, organizza le Olimpiadi rimaste nella storia per le imponenti scenografie e il non indifferente effetto propagandistico.

Un racconto a due voci

Le storie delle due voci narranti s’intrecciano, senza che i protagonisti si incontrino realmente; da un lato un personaggio di fantasia, il reporter statunitense inviato per “Herald Tribune”, Dale Fitzgerald Warren, prova un grande entusiasmo per l’avventura olimpica; dall’altro, Wolfgang Furstner, figura realmente esistita, ex combattente della prima guerra mondiale per i Freikorps e responsabile del comitato organizzatore di Berlino’36, vive l’evento tormentato da un’inquietudine pressante.
Sulla nave che conduce la compagine statunitense alla volta della Germania, Warren è spalleggiato dalla pseudo-collega Eleanor Holm, medagliata alle precedenti Olimpiadi, ma espulsa dalla squadra ancor prima di approdare in Germania, a causa di qualche bicchiere di troppo. Dagli States le viene offerta la possibilità di inviare dei report sulla manifestazione, ma non avendo mai scritto un articolo in vita sua, si affiancherà a Warren, divenendo per lui una sorta di angelo custode. In cambio di qualche pezzo scritto a suo nome, l’atleta  metterà a disposizione dell’inviato il suo spirito di avventura e la naturale sfacciataggine. 
Decisamente diversa la condizione di Wolfgang Furstner, responsabile per la costruzione del villaggio olimpico e l’organizzazione dell’evento; il suo sangue in parte ebraico rende la propria partecipazione travagliata e tormentata. Una perenne ansia lo accompagna fino a scalfire il suo vivere quotidiano in qualsiasi ambito. Sulle spine nelle vesti di un cicerone insicuro, mostra a Hitler e allo Stato Maggiore tedesco il villaggio olimpico, nell’attesa di un gesto di apprezzamento da parte del Führer, che mai glielo concederà; in imbarazzo al ricevimento in onore di Leni Riefensthal, durante il quale Brundage il Presidente filonazista del comitato olimpico americano, lo sfida tonante con un “Heil Hitler!” per testarne l’orgoglio ariano. Pur avendo svolto un lavoro ottimo, il capo organizzatore tedesco si accompagna a questa sorta di vuoto d’aria e di eterna inadeguatezza. Riaffiorano, in brevi ma penetranti corsivi, le sue memorie di guerra, i suoi giorni al fronte densi di immagini poco rassicuranti, da cui si dipana sempre la trappola costruita intorno al “mezzoebreo” in quei caldi giorni di agosto di metà anni ’30.

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Le storie nella Storia

Il lettore può a maggior ragione percepirne l’ansia, palpabile senza essere troppo invasiva, nel differente stile di scrittura delle due vicende: le frasi più brevi e concise costruiscono il ritmo serrato nell’esposizione di Furstner, contrapposta a una narrazione più composta, disinvolta e convenzionale, nelle vicende di Warren.
“L’ultima estate di Berlino” è il racconto della grande illusione, quella di una riunione di tutti i popoli sotto un’unica bandiera, quella a cinque cerchi, che si rivelerà un’altra lampante dimostrazione della organizzazione e insieme della perfidia del Terzo Reich, che, a Giochi ultimati, non lascerà spazio per utopistici sogni di democrazia.
Storie nella storia, come quella di Jesse Owens, tanto schivo quanto bravissimo nel salto in lungo, che stringe amicizia con il suo rivale tedesco Lutz Long, in barba alla cultura del razzismo imperante diffusa dalla politica di allora. O la commovente vicenda del coreano Sohn Kee-chung, costretto a gareggiare per gli invasori giapponesi col nome di Son Kitei e passato alla storia per aver vinto la maratona, entrando nello stadio Olimpico di Berlino a capo chino; a dimostrazione di non essersi arreso all’idea di consegnare quella vittoria agli invasori, salito sul podio, chinò la testa quando issarono la bandiera nipponica e nascose il solo rosso stampato sulla maglia, con il ramoscello di ulivo. 

Sohn Kee-Chung sul podio delle Olimpiadi del 1936. Credits: Archivio Fidal

Sohn Kee-Chung sul podio delle Olimpiadi del 1936. Credits: Archivio Fidal

L’opera di Buffa e Frusca testimonia ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, l’indissolubile legame tra sport e contesto socio-politico, binomio che porta alla nascita di memorie storico/sportive affascinanti e indelebili. 
Il finale lascia certamente colpiti e consegna alla vicenda il visto per entrare direttamente nella storia.

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