Danilo Mandolini, A ritroso, L’Obliquo, 2013 Danilo Mandolini, A ritroso, L’Obliquo, 2013

Danilo Mandolini, A ritroso, L’Obliquo, 2013

A ritroso di Danilo Mandolini, edizioni L’obliquo, Brescia 2013

A ritroso di Danilo Mandolini, edizioni L’obliquo, Brescia 2013

Semplicistico sarebbe intendere il percorso tracciato da Danilo Mandolini in A ritroso, L’Obliquo, 2013, come la raccolta scelta, selezionata, rivista, riscritta  e riorganizzata della propria produzione iniziando dal presente e approdando al passato, come lui stesso sostiene  nella Nota iniziale: ‹‹Il titolo rimanda al modo in cui i singoli brani sono stati inseriti nell’opera: dai più recenti ai più datati, appunto››.

Così fosse, ne sarebbe scaturita una linea praticamente retta, distesa e risolta attraverso la medesima via percorsa nell’andata,  e le sezioni del libro scandirebbero le fermate a quelle stesse stazioni.  Si tratterebbe, sostanzialmente, di una raccolta antologica che sovverte solamente, rispetto alla tradizione, il principio e la fine.

Il rimescolamento, gli spostamenti, la riscrittura rimandano invece a un’immagine più complessa della linea retta, non riassumibile neanche con l’idea del cerchio, della durata bergsoniana: con A ritroso Mandolini lusinga il proprio lettore  con la promessa della chiarezza e lo chiude invece all’interno di un labirinto per il quale la via d’uscita ‹‹si muove verso di noi al pari di come si allontana››[1].  Non dunque ‹‹Un vortice senza inizio né fine››. Non ‹‹L’inizio che implode nella fine›› (p. 21) ma un percorso delimitato da siepi (e siepe è una delle rilevanti occorrenze), oppure con ‹‹le nubi lontane a fare pareti›› (p. 42) in cui, di volta in volta, ci si trova a sprofondare in un qui. Non lo spazio che ‹‹tornando, è comunque lo stesso›› (p. 38) ma ‹‹traiettorie […] in cerca di spiragli›› (p. 47). Il varco (ovvero l’uscita dal labirinto) anche in Mandolini, come in Montale, è solamente un’illusione; tante le parole (la presenza della parola è una costante nel libro[2]) ma nessuna di esse è salvifica.

Nel labirinto si incontrano la vita e la morte. Bisogna avere occhi attenti per accorgersene; metafora di tale incontro è la città: ‹‹La città è fragile e selvaggia, / costruita sul sangue e sulle vene, / sopra il sogno che porta dalla spiaggia / la vita e la morte della sabbia›› (p. 55). Certamente, non lo si nega, nell’attimo del congiungimento la morte è il ‹‹nulla che compare›› (p. 29), è ‹‹stupore›› (p. 32), è ‹‹una crepa priva di fondo›› (p. 47). E’ soprattutto il ‹‹mondo che verrà›› (p. 57). E’, forse, luce che ‹‹ostenta la sua assenza›› (p. 60). Nei sentieri del labirinto i vivi vivono la morte e non la vedono. Muoiono invece la vita quando è l’apparenza a renderli schiavi, non consapevoli del fatto che ‹‹C’è un vento che resiste alla sera, là fuori›› (fuori dal labirinto, appunto!) ‹‹che fa del prossimo crepuscolo che giunge›› (e giunge dentro al labirinto dove ogni uomo vive e muore) ‹‹transito convulso dei vivi verso altra vita›› (p. 65). D’altronde è pur vero, e ciò Mandolini ha constatato  durante la ventennale malattia del padre, che pure, contemporaneamente, si può essere ‹‹morti e vivi dentro a un corpo››.

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Il sentimento che da tutto ciò può derivare è quello dell’inappartenenza, dell’incapacità di essere in grado di attribuire un senso alla vita così concepita. Se ne difende Mandolini. In primo luogo con la sottintesa coscienza che il labirinto è eterno; almeno esso non ha fine: ‹‹Guardo mio padre guardarmi / negli occhi parlarmi. / Guardo mio figlio guardarmi, / negli occhi ascoltarmi››(p. 69), e: ‹‹Guardo mio figlio parlarmi, / negli occhi guardarmi.  // Guardo mio padre ascoltarmi, / negli occhi guardarmi››. In secondo luogo con l’attenzione alle cose, agli oggetti anche semplici, come le sedie che pure, affidano a mani umane il loro divenire (p. 144).

La misura dei versi corrisponde alla misura dei toni. Il vento non solo non li scompone ma pare invece contribuire al loro ordine.

Quale dunque la via per uscire dal labirinto?: ‹‹Le domande sono dietro le nubi / mute come un luogo da scoprire…››.


[1] L’espressione, a pag. 113, è parte di un testo riferito alla mano: La mano si può chiudere; si può aprire… […] per trattenere l’inizio e la fine di un respiro che si muove verso di noi al pari di come si allontana.

[2] Si ha piacere a ricordare la frequentazione di Mandolini con Francesco Scarabicchi, poeta per il quale il nome è fondamentale e che  Mandolini, certo a lui in omaggio, riprende anche in altre circostanze, come ad ed es. nel riferimento ai  versi: «I vivi di qui, adesso, dove sono?» Il cancello,  peQuod, 2001

 

Autore: Norma Stramucci

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