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I frutti del vento | Tracy Chevalier

I frutti del vento Tracy ChevalierI meli come figli e i figli come semi. Gli uni arrivano da lontano e crescono anche dov’è difficile sopravvivere, gli altri vanno lontano a portare nuova vita e nuovi frutti. È una grande lezione di socio-ecologia, di armonia con la natura, di fiducia nel futuro “I frutti del vento” il più recente romanzo di Tracy Chevalier – autrice del celebre “La ragazza con l’orecchino di perla” – pubblicato per Neri Pozza nel gennaio 2016.

Le mele della discordia

Prima metà del XVIII secolo. I semi di melo sono stati trasferiti negli Stati Uniti dalla madrepatria inglese e una famiglia di pionieri della botanica si batte per farli crescere in una terra inospitale. È il nordest dell’Ohio, paludi tanto inaccessibili da scoraggiare i più arditi, dove il fango risucchia la vita sommergendo ogni cosa e quel poco di terreno coltivabile va strappato alla macchia che avanza inesorabile a divorare il suolo. Prosperano arbusti incolti e sterili e solo a costo di grande fatica quotidiana la famiglia Goodenough fa crescere le piante di melo, acquistate da John Chapman, un buon diavolo tutto sommato, se si eccettuano certi atteggiamenti amorali. Per inciso, è un personaggio autentico, conosciuto come Johnny Appleseed (in italiano: Giovannino Semedimela). Era un antenato degli attivisti ecologisti, girava le terre selvagge del West piantando migliaia di semi di mele, che portava dalla Pennsylvania. Per tutta la vita si è preso cura degli alberi, che in un territorio enorme, pari a tre Stati attuali, Ohio, Indiana e Illinois, davano piccole mele, buone soprattutto per distillare sidro e un altro derivato alcolico: l’applejack.

Chapman dunque ha venduto i semi a James e Sadie, i litigiosi coniugi Goodenhoug. Per ottenere il diritto di proprietà dell’appezzamento di terra sul quale lavorano, le famiglie devono coltivare almeno 50 alberi, a dimostrazione che il colono è seriamente intenzionato a restare. Si capisce perciò che lo sforzo valeva la candela, sarebbero diventati possidenti proprio dove li aveva portati dall’Ovest un malandato carro di legno, fermato dalla mota salita oltre i mozzi delle ruote. L’avevano preso come un segno del destino e in quel luogo la giovane coppia aveva edificato la casa di tronchi.

Un paragrafo ciascuno, marito e moglie si alternano nel racconto, per metà del romanzo. Sono padre e madre di dieci figli, solo cinque dei quali sopravvissuti alla malaria della Palude Nera. Una coppia scoppiata. La vicenda si apre mentre vengono ancora una volta alle mani. James vuol piantare mele dolci, buone da mangiare, Sadie quelle asprigne, per ricavare il sidro o l’applejack.

Erano così abituati ai litigi che ciascuno dei due recitava la parte a memoria, senza neppure badare alle parole dell’altro: le avevano sentite fin troppe volte.

Curiosa, interessante, la guerra dei Goodenough, raccontata con mano leggera da Tracy Chevalier. Poi il libro prende un andamento diverso. Tocca ai figli diventare protagonisti. I due migliori. Robert ha i capelli color ambra, è il più piccolo dei tre maschi superstiti, il più assiduo, a differenza degli altri seguiva il padre dovunque e spesso aveva dovuto accudire tutti in famiglia, assaliti dalle febbri, perchè lui non si ammalava. Martha, poi, era la preferita da James, perché aveva un carattere dolce e non gli rispandeva né gli rideva in faccia come gli altri.

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La seconda metà è un altro romanzo. C’è un passo diverso (le lettere di Robert ai fratelli e le risposte di Martha), ci si ritrova qualche anno avanti e il respiro del racconto è più aperto, in uno scenario molto più ampio della Palude Nera, visto che il ragazzo gira l’America del Nord, va fino in Canada, raggiunge la California, la terra dell’Oro. Perché sia andato via da casa non si apprende immediatamente, ma dalla corrispondenza si conoscono le avventure del giovane, che finisce in galera, esce, lavora in scuderie, anche per l’esercito, pur non volendo fare il soldato – i cavalli tengono caldo, anche se passano le pulci, altro che il gelo dell’Ohio – poi si mette al servizio di un uomo che ha lo sguardo pulito e sa vedere avanti. È quello che oggi si direbbe un vivaista, allora un appassionato coltivatore di piante, un uomo che “costruisce” alberi ed esporta semi. E i semi, se curati con amore e con la giusta attenzione, crescono e portano vita e da questa e ne trasmette altra.

I semi sono duri a morire. Hanno bisogno solo del posto giusto dove risvegliarsi. Il cuore avrebbe aiutato Robert a cercarlo.

Autore: EffeElle

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