Imparare dagli insetti molto anche sul nostro conto
Con i «Ricordi di un entomologo» di Jean-Henri Fabre la filosofia ritorna alla scienza
A chiunque sia capitato di guardare un documentario sugli insetti, soprattutto attraverso quei filmati girati con le moderne techiche di ripresa così ricchi di dettagli; oppure per chi anche solo si sia seduto in un prato e si sia messo a osservare i suoi numerosi abitanti, sarà stato inevitabile provare sovente un senso di meraviglia mista a una potente ripugnanza tanto quelle creature ci appaiono mostruose. Non è poi un segreto che moltissimi cineasti dell’orrore o del fantastico abbiano tratto ispirazione dal microcosmo per dare vita ai protagonisti delle loro opere. Eppure, a conoscerli bene, gli insetti possono rivelarci moltissimo sia sulla ricchezza, sia sui meccanismi della natura, anche quella umana.
Gli entomologi, possiamo dire, sono dei veri filosofi; e non si scordi che tutte le grandi menti d’Oriente e d’Occidente, se hanno voluto combinare qualcosa, hanno dovuto piantare i piedi ben per terra e abbandonare i cieli. Sebbene a diverso titolo, insegnano molto di più uno Schopenhauer (che iniziò il suo cursus studiorum a medicina) e un Marx, che non uno Heidegger o un Platone. Sicché possiamo annoverare tra i grandi pensatori della nostra epoca anche il grande entomologo francese Jean-Henri Fabre, autore di una sterminata opera intitolata Souvenirs entomologiques, di cui è arrivato in queste settimane il primo volume per i tipi dell’Adelphi (Ricordi di un entomologo), una delle pochissime case editrici che, soprattutto di questi tempi, possano permettersi di stampare un tomo di quasi settecento pagine, il primo di una serie di cinque peraltro, tutto dedicato allo studio del microcosmo.
Fabre era un soggetto singolare, come invero quasi tutti gli entomologi. Nato nel 1823 e morto nel 1915, ha sempre vissuto nella campagna francese e nelle sue case allevava ogni genere di insetti, anche se la sua attività si svolgeva per lo più nei loro habitat naturali. Insomma, Fabre era uno studioso serio. E nonostante la scarsità di strumentazione disponibile al suo tempo, i Ricordi di un entomologo, oltreché pietra miliare nella storia della scienza, sono considerati un testo fondativo per quella speciale branca scientifica.
Non inganni il tono discorsivo della pagina di Fabre: non siamo infatti alla presenza della così detta divulgazione corrente ai nostri giorni, che in realtà è sempre volgarizzazione. Fabre, per sua e nostra fortuna, visse molto prima di questa moda stracciona. Egli fa capire le cose senza adoperare un linguaggio esoterico, e al contempo non sfugge ai rigorosi criteri scientifici di osservazione e di analisi. A suggello di questa caratteristica stiano le parole di Gerald Durrell, che firma la prefazione ai Ricordi: «È Fabre che ci ha fatto uscire dai recessi oscuri dei musei, dal loro tanfo di morte, per condurci nella campagna piena di luce, mostrarci lì i suoi amati insetti, e rispondere alla domanda perché».
È anche uno spirito polemico e uno dei suoi bersagli fu niente meno che l’evoluzionismo, ancorché Charles Darwin ammirasse molto l’opera di Fabre e i due fosseri amici.
Molte istruttivo, ad esempio, è il capitolo IV, dedicato alla «Teoria dell’istinto», per cogliere sia l’acribia, sia la profonda visione filosofica di questo studioso.
Analizzando le capacità predatorie di un imenotte e raffrontandole con quelle dell’essere umano, Fabre giunge a sostenere, in buona sostanza, che mentre nel primo quell’istinto è innato, nell’uomo la capacità di uccidere non lo è affatto ed è pertanto falso sostenere l’ereditarietà cellulare di certe pulsioni. Ascoltiamolo.
«Com’è venuto in mente al macellaio dei nostri paesi, o al desnucador della pampa, di conficcare uno stiletto alla base del midollo per ottenere la morte istantanea di un colosso che altrimenti non si lascerebbe sgozzare senza opporre una minacciosa resisteza? Al di fuori della gente del mestiere e degli scienziati, nessuno conosce, o immagina, l’effetto folgorante di una simile ferita… Sono stati la tradizione e l’esempio a insegnare la loro arte al desnucador o al macellaio […]. Un evento fortuito ha fornito l’idea originaria, l’osservazione l’ha confermaa, la riflessione l’ha sviluppata, la tradizione l’ha conservata e l’esempio propagata […]. L’ereditarietà non trasmette l’arte di uccidere mediante recisione del midollo spinale; non si nasce macellatori di manzi secondo il metodo del desnucador». E si domanda subito, parlando dell’ammofila (una specie di imenottero), che dimostra avere innato non tanto l’istinto cacciatore ma tutto il bagaglio necessario per metterlo in pratica: «Dove sono, nel suo caso, i maestri nell’arte dello stiletto? Non ci sono. Quando l’imenottero squarcia il bozzolo ed esce da sottoterra, da molto tempo ormai i suoi predecessori non esistono più, e anche lui sparirà senza aver visto i suoi successori… Dunque assolutamente nulla viene trasmesso mediante l’educazione basata sull’esempio. L’ammofila nasce già desnucador come noi nasciamo già pronti a succhiare il seno materno». E più oltre: «Cerchiamo di risalire, se possibile, alle origini dell’istinto dell’ammofila. Oggi, più che mai, ci tormenta un bisogno, quello di spiegare ciò che potrebbe essere inesplicabile. Alcuni, con superba audacia, forniscono una soluzione drastica a questo enorme problema, e il loro numero sembra aumentare di giorno in giorno. Procurate loro un pugno di cellule, un po’ di protoplasma e uno schema interpretativo e troveranno spiegazione a ogni cosa. Il mondo organico, il mondo intellettuale e morale, tutto deriva dalla cellula originaria, che si sviluppa con le proprie energie. Niente di più. Nato da un’azione fortuita che si è rivelata utile per l’animale, l’istinto è dunque un’abitudine acquisita. Su questa base si argomenta a favore della selezione, dell’atavismo, della lotta per la vita (struggle for life). A questi paroloni, io preferisco alcuni piccoli fatti». Alla fine conclude: «A quanto pare, a questo mondo, l’evoluzione della cellula non è tutto».
Tali considerazioni sono parecchio utili perché riconducono ad esempio la filosofia idealistica e la filosofia morale, posto che abbiano ancora orecchi, ad assai più miti consigli. Come si vede, le parole di Fabre ci dicono molto di più sull’uomo di quanto tutte le lungagnate esistenzialistiche che impestano i nostri cervelli da quel dì.
Fabre non giunge a dire, per converso, che l’uomo è un essere buono, anche perché l’antropologia a lui serve solo per spiegare il mondo degli insetti e a smontare la teoria degli istinti e dell’ereditarietà tanto in voga nella sua epoca. Tuttavia egli può essere un eccellente strumento per un’analisi del comportamento umano che, dismessa ogni velleità morale, operi in quello che ad esempio Marx ed Engels hanno chiamato (in verità lo hanno fondato) materialismo storico. Ossia: si deve partire dalle basi materiali dell’agire umano per trarre conclusioni, e non già da considerazioni di natura astratta per poi dedurne teorie e su cui fondare prassi equivoche e svianti.
Ancora oggi gli idealisti cercano di classificare i comportamenti umani in base a categorie metafisiche, che poi alla fine sono sempre preconcetti derivati da un’inversione del rapporto tra prassi e pensiero; e il procedimento con cui molti ricercatori nei più vari campi maneggiano, pur essi non avvedendosene, subisce la medesima impostazione ancor dura ad abbandonare questa sua vecchia pellaccia. Ed è proprio tale spontaneità inconscia a cacciare sovente in un vicolo cieco i tentativi di decrittazione dell’agire umano. Già, su altro fronte, Schopenhauer ad esempio recisamente negava alle idee religiose la natura innata, come pretendeva la teologia del suo tempo (e anche del nostro) e dichiarava fossero il frutto di un arresto nello sviluppo intellettuale degli individui ai quindici anni loro, sicché egli poté parlare della sua filosofia come di una metafisica immanente, una metafisica senza cielo. E se ciò è indubbiamente vero per i pensieri religiosi, figurarsi per il comportamento che implica sopravvivevenza e produzione. Basti osservare i diversi mores che caratterizzano i popoli del globo nelle diverse epoche per avvedersi quanto altamente sviante sia giudicare in base a un codice predeterminato: il quale, peraltro, alla sua volta non possiede una natura innata.
Tutto ciò implica la possibilità di una trasformazione dei rapporti di produzione e delle relazioni sociali e denuncia quanto stolido sia reputare immutabile l’attuale modello politico e sociale in cui siamo immersi. E di più. Le osservazioni di Fabre ci aiutano a definire la posizione e le caretteristiche delle natura e dell’uomo. Se pur è indubitabile l’appartenenza di Homo alla natura al pari d’un imenottero, altrettanto e più vero è la singolarità dell’essere umano, la quale purtuttavia non deve essere intesa come ha voluto la teologia cristiana, uomo come coronamento del cosmo, bensì come l’unico essere – salvo qualche eccezione nel mondo animale superiore – in grado di modificare il proprio comportamento in base alla condizione sociale in cui si trova ad operare e alla quale egli stesso, con il suo operare, dà forma e vita. Ciò ci lascia intravedere una possibilità di mutamento nei rapporti sociali e quindi, ossia dopo, della mentalità. Mutamento che potrà avvenire soltanto attraverso una rivoluzione, sì come storia insegna: mai c’è stato cambiamento – oggi tanto invocato dai tribuni della plebe assisi nei parlamenti e scorrazzanti nelle piazze – senza che uno scossone a vario grado suonasse la sveglia.
Se applichiamo ad esempio queste lezioni alla sconcertante fase attuale di virulenza, c’è da restare esterrefatti a constatare come due secoli di capitalismo abbiano mummificato i cervelli. Si dà per scontato di poter affrontare il virus (e, beninteso, qualsiasi altra calamità) mantenendo lo stato attuale dell’arte, il quale in gran parte è responsabile dello stesso virus e come tale incapace di farcene uscire se non con sgomitate date abbastanza a caso sulle nostre gengive. Nessuno in questi lunghi mesi in Italia, in Europa, e men che meno di là dell’Atlantico, ha osato mettere in dubbio l’esistenza del sistema di produzione capitalistico per uscire e dalla pandemia e dalla conseguente crisi. Come si vede la catena descritta da Fabre circa i desnucador (che tanto paiono avere in comune con la classe dominante) si ripete tale e quale. Il cervello umano rassomiglia a quelle materie come la cera: malleabilissimo e duttilissimo in condizioni favorevoli o quando l’ambiente si surriscalda. Ma abbassate i gradi della stanza, ossia smettete di pensare, e ve lo ritroverete duro e inutilizzabile.