Alla scuola del morto, ovvero L'Anti-Cioran Alla scuola del morto, ovvero L'Anti-Cioran

Alla scuola del sottosuolo, ovvero L’Anti-Cioran

cioran criticaNon l’ho mai sopportato, non lo sopporterò mai. Meno ancora l’ho mai ritenuto un pensatore di riferimento, nemmeno quando ai miei vent’anni mi professavo pessimista e avevo l’allure dell’esistenzialista. «Si vede che non era abbastanza pessimista», mi disse con un mezzo sorriso Claudio Mutti – allora mio amico e in qualche modo mentore – quando confessai anche a lui questa mia insofferenza. Adopero il verbo confessare perché da qualche tempo a questa parte pare che Cioran sia diventato – invero non ha forse mai cessato di essere – il nume di molti intellettuali e di molte persone comuni che, bisognose d’una Weltanschauung, gli si buttano tra le braccia come naufraghi sulla scialuppa di salvataggio o, più pertinentemente, su qualche lacerto ligneo galleggiante.

All’inizio fu, come in molti casi, Adelphi: il demiurgico editore iniziò a stampare delle ottime traduzioni di Cioran e fu subito, o quasi, obbligatorio leggerlo. Poi ora, e siamo nel 2015, Adelphi non si cura più da circa dieci anni del pensatore romeno naturalizzato francese, ma in compenso è entrata in voga, silenziosa e infida, una sorta di Cioran-Renaissance, piuttosto maniacale. Testi inediti, lettere soprattutto, e un attaccamento che è invero segno dei tempi. Due sono le novità uscite in questi ultimi mesi che mi hanno spinto a buttar giù queste considerazioni: Tradire la propria lingua. Intervista con Philippe D. Dracodaidis (La scuola di Pitagora editrice, euro 4) e Ineffabile nostalgia. Lettere al fratello 1931-1985 (Archinto, euro 18). Inolte c’è la possibilità che un noto editore milanese traduca quest’anno un testo cioraniano “proibito”, Trasfigurazione della Romania. Insomma, un bel mazzetto di titoli, tutti a maggior gloria del pensoso esule.

Seppur di non immediata comprensione (era un furbastro, ma un furbastro intelligente e colto, che sapeva tener la penna in mano come pochissimi altri, tanto da esser ritenuto uno dei due o tre migliori prosatori in lingua francese del Novecento), Cioran accarezza e seduce le più immediate e scontate esigenze esistenziali e intellettualoidi dell’occidentale moderno: nelle sue pagine il nichilismo ontologico dell’uomo d’oggi trova una sorta di sistematizzazione teoretica più o meno stabile, di giustificazione (ancorché d’argomentazione mai). Purtuttavia l’arma con la quale si crede di far a fette il mondo e di difendersi da esso è solo un tagliente boomerang: prima o poi la stessa teoresi cioraniana può ritorcesi contro chi l’ha a(r)mata, sposata e fatta diventare vita vivente quotidiana. Cioran lega come Medusa: affascina e seduce ma pietrifica, e con l’andar del tempo ci si sgretola.

Questo filosofo è la ricetta facile per chi, ignaro di cosa sia spirito, si getta tra le braccia del primo imbonitore da speakers’ corner di Hyde Park. Non ha idee neppure originali e spara nel mucchio. Una pagina di Schopenhauer basta a liquidare tutta la paccottiglia cioraniana, tutto il suo pessimismo di maniera: anche perché l’autore della Welt nutriva una fede piuttosto profonda nel proprio pensiero e Cioran invece, nel suo, non ha mai creduto un solo istante. Ha piuttosto cavalcato un’onda, sempre tuttavia di tanto in tanto prendendone le distanze, ma per posa. Credeva solo in ciò che faceva, ossia niente, perché tra l’altro Cioran di lavorare non ha mai avuto né voglia, né intenzione (forse l’unico tratto simpatico e soprattutto plausibile del personaggio). Ha cercato un modo per sbarcare il lunario e attraversare le epoche senza pagar dazio, imbonendo masse d’idolatri prive direzione, pubblico da panem et circenses con velleità intellettuali.

Questo non vuol dire ch’egli fosse solo ed esclusivamente un calcolatore. No, era ben peggio: era scaltro ma al tempo stesso incapace di oltrepassare questa furbizia da scansafatiche filosofiche. Egli era di fatto un manierista di se stesso, incapace di uscire dal personaggio che s’era andato a creare incautamente negli anni, vestendo la maschera dell’esiliato, del reietto. Quando poi si rese conto che questi panni erano merce buona da spacciare al mercato delle idee in fase di disarmo, pigiò sull’acceleratore. Una sorta di magliaro, che non poteva – né voleva – mettere in piedi una decenza, cercare altre vie, che non fossero quelle d’un pessimismo di second’ordine, ancorché acconciato assai bene. Tutte le sue tiritere sul suicidio, per esempio, sono una farsa delle più diaboliche: «L’unica volta in cui ho pensato seriamente al suicidio – ebbe a dire – è quando si allagò la mia mansarda». Davvero un eroe, un samurai.

Trasfigurazione della Romania 

Episodio interessante è quello di Trasfigurazione della Romania (Schimbarea la fata a Romaniei), libro scandaloso nel senso etimologico del termine, ovvero trappola, inciampo, molestia.

È un libro che dovrebbe consegnare alla storia l’adesione di Cioran al Movimento legionario romeno e, di conseguenza, al nazionalismo. In epoca di nazionalismi trionfanti e sostenuti da tutti (siamo nel 1936), Cioran si adegua allo spirito del tempo, tanto per cambiare. Però il segnacolo porta su di sé screziature di distinguo, ancora una volta: ci si allinea, ma con riserva, con un piede fuori dalla porta, chissà che non cambi improvvisamente il vento. Cioran aderisce, sì, alla Legione, ma alcune sue istanze sono altre, ci sono prese di distanza, tutte di carattere “filosofico” e non troppo bene argomentate. Ciò su cui invece egli si dimostrò non solo concorde ma che doppiò in estremismo, fu l’avversione per gli ebrei. Orrifiche suonano le parole contro i figli di David in quel testo (parole che peraltro nessun legionario scrisse né pronunciò mai). Parole che però egli volle espellere dall’edizione del 1991, la prima dopo l’unica del ’36, a democrazia compiuta, intimando a chicchessia di considerare questa l’edizione definitiva del testo. Anche qui del guerriero nichilista che lotta contro il mondo non si scorge traccia. Avrà cambiato idea, si dirà. Per niente: egli era semplicemente rimasto ancora una volta fedele a se stesso, ossia a chi batte la solfa della musica à la page in questo o quel frangente storico: nazionalista in tempo di nazionalismo, antisemita in tempo di antisemitismo, scioperato in tempo di scioperati, ateo in tempo di ateismo, nichilista in tempo di nichilismo modaiolo. Quando si dimostra lottare contro il mondo, lo fa solo perché anche questa è una tendenza, una moda.

Gli scritti di Cioran non hanno infatti mai spostato d’una virgola non dico il corso storico degli eventi, ma nessuna singola individualità. Chi si ritiene cambiato dopo una lettura di Cioran è irretito da un’illusione: è solo stato riconfermato nelle tendenze dissolutive dell’epoca. La lettura di Cioran è una cresima profana dell’ovvio e dell’attuale. Cioran è sempre attualissimo perché ha sempre posato da inattuale, non ha mai contraddetto allo stato dei fatti se non, appunto, con quella vanità tipica d’un dandy fuori tempo massimo. È come, mutatis mutandis, essere oggi gay friendly o a favore delle coppie di fatto credendo di sfidare e distruggere la sempre colpevole borghesia o l’astratto «sistema», quando invece questo, per una neppur troppo guizzante eterogenesi dei fini, è rincorso e abbracciato. Mentre credi di fottere i fatti, sono loro che fottono te, e tu, felice e contento, paghi pure il conto, sorridendo. Cioran oggi sarebbe il perfetto conduttore della «Zanzara».

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Al culmine della disperazione

Il primo vero libro, Al culmine della disperazione, Cioran lo pubblica all’età di ventitré anni, nel 1934, quando ancora abitava nella terra natia. Esso è il frutto d’una patologia che lo inseguirà per tutta la vita: l’insonnia. Ecco dunque come nasce un filosofo di questi tempi, da un grave disturbo del sonno. Cioran fece di necessità virtù e dal proprio personalissimo problema trasse addirittura una “filosofia” e definì quel libro «il più filosofico» tra tutti quelli che aveva scritto. Un isterico, dunque, e per soprammercato un ingrato perché, nonostante il successo e una vita spesa a vivere sulle spalle dei creduloni e della moglie Simone Boué (che com’è noto cornificò pubblicamente, all’età di 72 anni, con la sua ammaliante ammiratrice trentaseienne, Friedgard Thoma), non trovò mai un barlume di luce in questa esistenza, che pure gli diede tanto. Un ingrato.

Soffrì, certo, per il lento declino in cui stava sprofondando la sua Romania sotto la falce comunista, ma rinnegò in maniera scomposta la propria adesione a un movimento che, niente meno, si prefiggeva tra l’altro d’arginare il vicino pericolo bolscevico, arrivando ad adoperare parole e toni scomposti («setta demente», «cancro», «complesso di malattie»), che tuttavia non riservò giammai al comunismo.

Apro a caso, ma a caso davvero, Al culmine della disperazione e leggo: «La conoscenza è una piaga, e la coscienza una ferita aperta nel cuore della vita». Sono millenni che l’uomo, in un modo o nell’altro, cerca la conoscenza, cerca la Verità e non pochi sono persino riusciti a sfiorarla, se non a penetrarla. Poi arriva «il più filosofico» dei libri di Cioran per sentenziare che tutto ciò per cui l’uomo ha lottato, lo sapesse o meno, e ciò per cui egli è stato fatto (tutte le tradizioni indistintamente lo affermano) è una piaga. Non c’è limite alla vergogna. E non solo per Cioran, ma anche per quelle schiere di giovani e meno giovani “di destra” o di estrema destra o anche di nessun colore politico, che, pur professandosi tradizionalisti o giù di lì, idolatrano questo imbonitore. Com’è possibile infatti conciliare quella che lor signori chiamano tradizione con frasi come questa: «Quando a me, dò [sic] le dimissioni dall’umanità. Non posso più, non voglio più restare uomo»?

Ineffabile nostalgia

In una nota a Ineffabile nostalgia, scopriamo che, allorché il fratello Aurel espresse a Cioran il desiderio di farsi monaco, il filosofo lo trattenne tutta la notte, «fino alle sei del mattino per convincerlo a ritornare sulla sua decisione». «Sciorinai – prosegue lo stesso Cioran – un’incredibile teoria anti-religiosa, tirai fuori tutto quanto potevo… Tutto quanto potei trovare contro la religione, contro la fede, tutto il mio nietzschianesimo [sic] imbecille dell’epoca… E conclusi con queste parole: “Se, dopo aver ascoltato le mie argomentazioni, persisti nell’idea di diventare monaco, non ti rivolgerò mai più la parola”… Tutto l’impuro che avevo in me si manifestò in quell’occasione… Avrei potuto accontentarmi di dirgli che tutto ciò non aveva senso… ma l’accanimento che misi nel volerlo persuadere era veramente demoniaco. In quella notte splendida, ebbi l’impressione che s’ingaggiasse una battaglia tra Dio e me… Quando feci allora, più tardi mi parve d’una straordinaria crudeltà. In seguito, mi sono sentito in un certo senso responsabile del destino di mio fratello, che fu tragico».

Cioran ricorda irresistibilmente un personaggio dostoevskiano, uno Smerdjakov oppure uno Svidrigajlov. Notava puntualmente un critico purtroppo scomparso dalla circolazione, Vladimir Laksin, in un prezioso contributo del 1972 e oggi prefazione a I fratelli Karamazov dell’Einaudi: «In Ivan Fedorovic si manifesta appieno uno stato scettico dello spirito, una sorta di incertezza a un bivio. Una via conduce di lì al nichilismo, alla più assoluta disperazione, alla delusione negli uomini e nel bene. Percorrerla significa finire nella più nera misantropia di un’anima arida e bruciata, quando un demoniaco risentimento spinge l’uomo a compiere atti sadisticamente malvagi nei riguardi del mondo e lo trasforma nell’“uomo del sottosuolo”, in Svidrigajlov. È come se l’uomo volesse esclamare: il mondo è malvagio, schifoso, irrimediabile e io rido di lui e di me stesso, rido persino dell’idea del bene che forse prima veneravo; il mondo affonda nel fango e io non muoverò un dito per salvarlo, ma affonderò con esso; il mondo è malvagio con me e io sarò malvagio col mondo e neanche di me avrò pietà».

Il fatto che Ivan Karamazov sia personaggio scaturito dall’immaginazione di uno scrittore non deve portare a una sottovalutazione dei suoi caratteri. Innanzitutto Dostoevskij è un perforante, lucidissimo osservatore della realtà umana e il più grande scrutatore d’anima malate che la letteratura d’ogni tempo abbia mai avuto. Ivan è quanto di più reale vi sia e anzi l’autore di Sommario di decomposizione e Squartamento appare scavalcare in ominosità e malvagità il giovane Karamazov. Egli infatti non possiede nemmeno la capacità di ridere e di andare a fondo con questo mondo che crivella di colpi di penna, anzi: si prende ben guardia dall’implicare se stesso nel suo nichilismo anche solo di lontano. (Forse è proprio questo uno dei tratti più urticanti dei nichilisti d’una certa risma: esserlo soltanto sulla scena del loro teatrino in cartapesta). Cioran non è mai stato malvagio con se stesso, tutt’altro. E per soprammercato non possiede neppure la tragica grandezza e la maestosità epica di Ivan, quel coraggio di gustare sino in fondo l’amaro calice ch’egli stesso coi suoi libri ha riempito e innalzato. Cioran non ha il coraggio di portare alle estreme conseguenze la furiosa teoresi che propala: ci troviamo così dinnanzi a un abbozzo d’uomo e di filosofo, come d’altra parte il suo cognome nasconde e un semplicissimo anagramma disvela: ciorna in romeno significa «bozza», «appunto», «scritto provvisorio e incompleto». La coerenza e la completezza gli restano solo nella sua doppiezza demoniaca: il diavolo non cade infatti mai nelle proprie trappole, strascinando invece l’altrui vita, di ingenui e a volte non meno protervi seguaci ed epigoni ipotetici.

Ogni pagina cioraniana riflette il sentimento di smarrimento e di rivolta dell’uomo moderno: insoddisfatto, privo di riferimenti edificanti, abulico e talmente autoriferito che giammai lo sfiora il dubbio d’essere sulla peggiore delle strade: quella dell’atrofia dell’anima e, conseguentemente, d’una probabilissima perdizione anzitutto intellettuale. La sequela del morto susciterà un grembo sterile capace solo di partorire una costante morte. Il pensiero di Cioran riconduce irresistibilmente ad alcuni versetti dei Proverbi biblici, perfettamente attagliati alla spoglia semovente del filosofo: «La sanguisuga ha due figlie: “Dammi! Dammi! Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai: “Basta!”: gli inferi, il grembo sterile, la terra ma sazia d’acqua e il fuoco che mai dice “Basta!”».

Autore: Luca Bistolfi

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