Lettera aperta a Massimo Fini. In occasione del bilancio di «Una vita» Lettera aperta a Massimo Fini. In occasione del bilancio di «Una vita»

Lettera aperta a Massimo Fini. In occasione del bilancio di «Una vita»

lettera a massimo finiCaro Massimo Fini, quando scopersi la Sua penna fu amore a prima vista. Avevo sì e no 14 o 15 anni e avevo preso l’abitudine di leggere «L’Indipendente». La Sua firma era senz’altro quella che mi attirava e affascinava di più. Ammiravo, tra l’altro, il Suo revisionismo storico: su quel quotidiano aveva fatto degli arditi, ma allora non incauti, paragoni tra Umberto Bossi e Catilina. Andavo al Liceo classico e imparavo, tra le altre fandonie, che Catilina era un farabutto, un malvagio delinquente: l’immagine che proprio Lei, in alcuni puntuali articoli prima e in seguito con un avvincente e documentatissimo libro (Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta), aveva ribaltato, restituendo a quell’antico romano la dignità e l’onestà che gli spettavano. Avevo persino inviato una lettera all’«Indipendente» chiedendoLe ulteriori delucidazioni su questa posizione: una lettera che ricevette risposta sul giornale. Ricordo ancora l’emozione del ragazzino che ero e persino il luogo dove la lessi, una mattina molto presto alla fermata del tram per andare a scuola. Da quel piccolo-grande atto rivoluzionario sulla storia romana, Lei, sebbene a fasi alterne, è sempre stato un mio autore di riferimento. Quando poi m’imbattei nella La Ragione aveva Torto? fu una sorpresa ancor più scioccante: uno scrittore (non s’offenda se ho reticenza nel chiamarLa giornalista), per di più di sinistra o giù di lì, che fa discorsi così “reazionari” e tradizionalisti. Lei si distaccava dalla massa scomposta dei cani di Pavlov e mi faceva sentire meno solo, da studente non allineato qual ero. Di tanto in tanto La vedevo anche in tv, da Funari soprattutto, e provavo un’istintiva simpatia per quello scapigliato giornalista-intellettuale, che era di fatto stato il primo vivente a fornirmi materiali, letali e “autolesionisti”, per una lettura antimoderna del mondo. Prima c’era stato, ça va sans dire, Nietzsche e che gioia scoprire qualche anno dopo che anche per Lei il filosofo tedesco aveva costituito un felice grimaldello e un contravveleno contro il “buon senso” e la modernità (si lasci dire che Sua biografia Nietzsche. L’apolide dell’esistenza è un capolavoro letterario oltreché storico). Insomma, Lei Fini sta a portata di mano nella mia biblioteca, tra i filosofi. E ora che è uscita, per i tipi del Suo storico editore Marsilio, la Sua autobiografia (Una vita) l’ho voluta addentare subito, divorandola in un paio di giorni, non foss’altro che per la curiosità d’apprendere lembi e squarci della vita d’un irregolare al quale per molti versi e indegnamente mi sento affine. Ecco, però: solo per certi versi, non per tutti. E veniamo così al motivo reale della mia lettera. In genere mi trovo concorde con moltissime ed essenziali Sue posizioni e riflessioni; i punti di disaccordo vertono più che altro su questioni politiche nazionali – come per esempio Mani Pulite, su cui nutriamo idee assai differenti, essendo io quello che i detrattori liquidano e sbeffeggiano come “complottista” –, ma quasi mai su questioni essenziali. Tranne una, cruciale: il Suo nichilismo, quel dire rassegnato che la vita non ha senso alcuno. Non lo accetto e mi amareggia. Esso costituisce una profonda contraddizione nell’impianto della Sua filosofia e, ciò che è ancor più inaccettabile, in una persona che ha capito moltissimo della vita moderna questa posizione si presenta con i connotati d’un vero e proprio peccato, ovverossia d’una deviazione. Anni fa, dopo aver già infilato uno dopo l’altro i suoi saggi più importanti (per esempio Il denaro. «Sterco del demonio», Sudditi, Il Mullah Omar, Ragazzo, Il Ribelle) dissi a un amico: «Fini è quasi perfetto. Ha solo un difetto, enorme». Quale? «È ateo». Nel corso d’una gradevolissima telefonata privata che Lei forse non ricorderà ma che io invece molto bene, Le dissi più o meno la stessa cosa e Lei, con grande e sincera cortesia com’è Suo costume, mi disse: «Beh, ateo… Direi più agnostico». Ora in Una vita si dichiara ateo. A questo punto, poco conta, perché il punto è un altro: la contraddizione. Ateismo e agnosticismo sono prodotti, senz’altro i peggiori, proprio di quell’Occidente che Lei stesso si è, con grande acribia e onestà e partendo da posizioni non certo “di destra” o conservatrici, prodigato a dissezionare sceverandone e illuminandone alcuni tra i peggiori vizi. La Ragione aveva Torto? e Il vizio oscuro dell’Occidente in tal senso sono emblematici e perforanti, così come alcune considerazioni contenute nella biografia nietzscheana. Purtuttavia ora Lei chiude la Sua di biografia dicendo che la vita non ha senso e porta a suffragio di questa idea alcune parole di Nietzsche, che però non vogliono dire propriamente ciò che Lei – in buonafede, beninteso – quasi estorce loro. In ogni caso, Nietzsche o no, quella è la Sua posizione e ciò è un’ingiustizia, dal punto di vista sia filosofico, sia umano. E un’ingiustizia soprattutto nei confronti di chi la esprime. Lei e qualche lettore direte che anche questa è una percezione personale. Vero, ma non è legittima, almeno non da un certo punto in là e meno ancora incastonata in un complesso teorico come il Suo. E non lo è in assoluto. C’è una forza intrinseca delle cose cui si deve resistere, come s’è già fatto altrove. L’Occidente è in caduta libera, tra l’altro, proprio per questa assunzione della forza individuale come unico metro di azione e di giudizio, per questo suo spericolatissimo e sperticato individualismo. Ma è una forza bruta e pertanto illusoria, perché è la dichiarazione d’una debolezza di fondo, questa sì, molto potente. Una debolezza che si chiama nichilismo. Il quale non ha mai costruito niente, se non la rovina di chi lo ha assunto entro di sé. In alcune interviste apparse dopo l’uscita di Una vita, Lei ha detto che questo è stato il Suo ultimo libro: irreversibili problemi di vista Le impediranno di leggere e pertanto anche di scrivere. No. Non sarà così, non voglio che sia così, molti, moltissimi lettori non lo vogliono. Farà come d’Annunzio che, quasi del tutto cieco a causa d’un incidente aereo, scrisse Notturno, persino sdraiato a letto. O come Johann Sebastian Bach o Händel, anch’essi ciechi, ma che seguitarono a comporre musica, e che musica. Ecco, l’augurio e la speranza che rivolgiamo e che abbiamo è che Massimo Fini, pur accettando la sua malattia come già sta stoicamente facendo, non ci lasci orfani d’un pensiero di cui l’italiano di oggi, quantunque sordo, ha bisogno. Manca solo quella “piccola” rettifica. Ma essa, forse, verrà col tempo. E anche se Lei non dovesse davvero scrivere ancora altri libri, l’augurio che Le faccio di tutto cuore è che nel Suo di cuore quella contraddizione esistenziale possa esser un giorno sanata. E in ogni caso mi creda: la Sua vita, per qualcuno, ha avuto e ha eccome un senso. Quel ragazzino entusiasta che leggeva «L’Indipendente» è quel che è oggi, nel bene e nel male, anche grazie a certe parole d’un certo scrittore.

Autore: Luca Bistolfi

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