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Intervista a Stefano Santarsiere, autore di “Ultimi quaranta secondi della storia del mondo”

Qual è stata l’ispirazione per un racconto come quello di Ultimi quaranta secondi della storia del mondo? È avvenuta leggendo un articolo di giornale, è basata su fatti reali o è un’invenzione?

Mi ha sempre affascinato il rapporto tra i simboli religiosi e l’essenza della spiritualità umana, quanto cioè quei simboli siano realmente capaci di rispondere alla nostra aspirazione verso il divino e quanto, invece, rappresentino solo un altro strumento di affermazione e magari sopraffazione, come le bandiere degli Stati. Leggendo dei saggi sull’iconografia religiosa ho notato la ricorrenza del simbolo materno, come esso si ritrovi in culti anche molto lontani tra loro; il passo verso il tema del sincretismo e proselitismo, anche violento, è stato breve. La storia del libro, comunque, è frutto di fantasia.

Non c’è un protagonista cardine della vicenda, l’unico intorno a cui si nota un po’ un centro è il commissario Sparagno. Come mai questa scelta?

Volevo un racconto corale nel quale l’indagine poliziesca fosse uno soltanto dei fili, proprio perché avevo bisogno dello spazio necessario per affrontare i diversi temi del romanzo. La struttura del libro è in parte ispirata a Il 42° parallelo di Dos Passos.

Che sia una vicenda tratta da fatti reali o immaginari, è avvenuta una documentazione precisa riguardo alle sette religiose o il tutto è stato tratto dalla fantasia?

La trama è frutto di fantasia, ma il contesto e lo sfondo storico e religioso è realistico. Ho lavorato sui meccanismi di proselitismo utilizzati dalla chiesa, sui contenuti delle bibbie apocrife, sulla diffusione e sul significato dei rituali pagani assimilati dal cattolicesimo. È stato importante per costruire un’atmosfera credibile e per lo sviluppo della trama.

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Qual è, secondo lei, il vero significato della presenza della figura della Madre con il Bambino in così tante culture?

Sono convinto che rappresenti il retaggio di un culto preesistente, più antico di quello cristiano, che ha a che fare con la fertilità e la Natura generatrice di vita. Credo che questa immagine parli al nostro desiderio di restare in contatto con la Terra, e di perpetuare la nostra esistenza in essa assicurandoci una discendenza. Nel mio libro, poi, questa idea forma il nucleo di una storia dominata dall’inganno e dalla violenza, in cui si allude a una verità alternativa sull’origine umana.

Il tema principale sotto la trama è il fanatismo religioso, settario o clericale. Il racconto è visto da lei più come critica costruttiva o come denuncia?

Direi più di denuncia. Non necessariamente verso la chiesa, ma verso chiunque si appropri dei simboli religiosi per trasformarli in strumento di prevaricazione. Per loro stessa natura le icone sono ambigue e sovrapponibili – e questo crea tensione fra religiosità storicamente contigue.

I vari problemi di natura ecologica (per esempio la fabbrica e il petrolio) del racconto sono propriamente della sua terra, che descrive nei dettagli?

Diciamo che la rappresentazione è abbastanza fedele, e rispecchia la reale insofferenza dei lucani verso le sfruttamento dei giacimenti e per le conseguenze sull’ambiente della Val d’Agri, cui non fa riscontro un apprezzabile incremento del benessere collettivo. Ma più in generale, accanto agli aspetti esoterici o religiosi, nel romanzo mi sono sforzato di rappresentare alcuni tratti tipici dell’ambientazione lucana, connotata da passioni atteggiamenti, vizi ben precisi.

Autore: redazione

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